Gastro-godimento accanto alla stazione (La Stampa)

In di Mimì alla Ferrovia

Dall’Alto del Paradiso (o dell’Inferno?) dei critici gastronomici, forse Federico Umberto d’Amato sorriderebbe, sornione e accattivante.

Forse l’uomo per decenni depositario dei segreti piu’ oscuri del nostro Paese, citato in indagini tra le più storiche ed agghiaccianti, capo dei servizi segreti e, anche, per anni, della Guida dell’Espresso, con un ghigno si toglierebbe una soddisfazione.

Quell’Edoardo Raspelli che lo aveva sbertucciato (e il cui fascicolo riservat si era fatto portare dai carabinieri), il suo amato Sud,i l Sude della tradizione, della passione, del sapore, dei sapori, lo sta recuperando.

Sì, di settimana in settimana, man mano che ricomincio a girare l’Italia e ad approdare per la prima volta (o a ritornare per l’ennesima) in certi posti, mi accorgo che quel Sud che anch’io ho per tanto tempo, se non disprezzato certo poco valutato, merita oggi un riconoscimento.

Dove, se non al Sud, troviamo i sapori? Dove,  se non al Sud, magari in una chiave di stretta semplicità, troviamo quei gusti perduti che tanto amava Federico Umberto D’Amato? Che cosa direbbe il grande commis della P2 di queste righe che inneggiano al suo ristorante preferito, a questo Mimì alla Ferrovia, accanto alla stazione centrale di Napoli, che, lui d’origini marsigliesi(!) ma napoletano di nascita, tanto amava e che conosceva da bambino?

Certo, di difetti questo grosso celebre ristorante ne ha, e ve li dico subito.

Sappiate innanzitutto, che è mandato avanti da anni da due cugini che hanno curiosamente lo stesso nome, Michele Giuliano. Bene ad uno dei due mettete la sordina, mettetegli un babà in bocca (sono buonissimi,del resto: non gli farete un grosso dispetto) perchè non vi lascerà in pace: non vi dico di quale Michele si tratti,v e ne accorgerete subito.

Vi travolgerà con la sua accattivante irruenza, con la sua imperversante parlantina; vi coprirà di tutti i suoi ricordi gastronomici, raccontandovi di pesca, di vita, di tradizioni, di personaggi, di uomini, di piatti, mescolando il più preciso italiano con il più misterioso dei gerghi (compreso quello dei tassisti).

A questo (che comunque, fa atmosfera) aggiungiamo i tavoli vicini, i camerieri senza tanti fronzoli, il salone di sopra che raddoppia il numero dei coperti già non pochi, ma poi il segreto è tutto li’. E’ tutto in quella parola ristorante che qui è sinonimo di atmosfera, di gioia, di gastro-godimento, di schiettezza, di semplicità, di calore e di colore. Insomma non rimpiango più tanto, arrivato a cinquant’anni, la ristorazione perfetta, grande ma asettica, che vi fa sentire degli estranei.

Alle pareti,riconoscimenti, diplomi, articoli e foto d’ogni tipo:i l bianco e il nero si mescola al colore per la sequela dell’Italia che ha fatto la storia e che qui si è fermata a mangiare. Ed allora accettate la ricotta e la mozzarella di bufala campana squisite, il paradisiaco peperone farcito, i gamberetti crudi e quelli appena scottati, il fritto di fiori di zucchina farcito di cirinielli e mozzarelline, e poi gli straordinari spaghettina ai calamari, la pasta e ceci da andar giù di testa per la bontà, i discreti rigatoni con vongole e fiori di zucchina, il fritto di calamari (meglio delle triglie), il gigantesco babà al rhum fatto in casa. Storia e gastronomia a bracceto per 70-80 mila lire.

La Stampa 9 ottobre 1999

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